giovedì 23 gennaio 2014
martedì 21 gennaio 2014
La vita mette ordine
Il sogno di un laboratorio messo su in funzione delle reali
esigenze di lavoro, allestito su misura nostra e che mostrasse la nostra faccia
e il nostro cuore, io e Francesco l’abbiamo sempre avuto da quando le nostre
passioni si sono trasformate, a nostra insaputa, tra le nostre mani, in un lavoro.
Uno di quelli che ti impegnano tutto il giorno, e, molto spesso, anche la notte;
che ti costringono a imparare molte cose che non sai, che non pensavi avresti
mai imparato e che non centrano niente con quello che hai studiato; che non ti
permettono di fare troppi programmi e ti impediscono di avere un finanziamento o
di accendere un mutuo; che sì, ti fanno viaggiare, ma sempre come se avessi
appena finito la maturità (non sai dove dormirai e con pochi soldi per gli imprevisti); che ti annullano il pensiero di fare la manicure e
ti costringono ad indossare il camice anche d’estate.
É quel genere di lavoro che, spesso, ti regala gli sguardi perplessi di chi ne ha scelto uno più “ordinato” e rassicurante, ed è convinto che la tua scelta possa fare rima con incoscienza, comodità e immaturità (ad essere buoni) ma, ovviamente, mai con fatica o serietà.
É quel genere di lavoro che, spesso, ti regala gli sguardi perplessi di chi ne ha scelto uno più “ordinato” e rassicurante, ed è convinto che la tua scelta possa fare rima con incoscienza, comodità e immaturità (ad essere buoni) ma, ovviamente, mai con fatica o serietà.
Ma è anche uno di quei lavori che
a volte ti fa leggere, a chiusura di una mail, frasi del tipo “grazie mille
perché sei un’artista” (ho le prove!) o
ti permette di ascoltare complimenti come “sembra di indossare una scultura!”
(ho i testimoni!); che ti fa partire per Madrid per visitare una mostra per cui
si è stati selezionati senza aver mai mandato la candidatura e che ti fa
acquistare, per caso, un libro all’aeroporto di Bologna perché sopra c’è la foto
di una tua creazione; che a volte non ti fa sentire la fatica anche se sono le
3 di notte e sei ancora in laboratorio con gli attrezzi in mano; che ti fa
provare quella magica sensazione di pensare qualcosa e poi vederla
materializzata tra le tue mani dopo qualche giorno.
Ormai, con sacrifici e speranza, la vita e l’età ci hanno
obbligati a scegliere, e perciò, quel laboratorio solo sognato, lo abbiamo
trovato e da due mesi abbiamo anche le chiavi.
Siamo ancora in fase di allestimento, e ci vorrà ancora un
mesetto prima che abbia il nostro aspetto, ma, nel frattempo, tra una parete di
cartongesso e "una mano di bianco", insieme allo spazio stiamo provando a
riorganizzare anche tutti gli altri aspetti del nostro lavoro.
È qualcosa che mi sono ripromessa da una paio di anni. Chi
mi conosce lo sa. Ma non ci sono mai riuscita come avrei voluto.
Ogni volta programmo di prendere in mano per almeno un mese
solo il computer e la macchina fotografica e dedicarmi al miglioramento delle
mie finestre virtuali sul mondo e della promozione e organizzazione del mio lavoro che (mio
malgrado) non è fatto solo di disegni, seghetti da traforo e metallo.
Mi armo di buoni propositi come ristudiare il sito internet,
avviare un e-commerce, mettere a posto il blog e dargli la vita che vorrei,
fotografare per bene i miei lavori, dare un aspetto più graficamente gradevole
alla presentazione delle varie collezioni, mettere giù descrizioni e
ispirazioni che alimentano il mio lavoro, sperando di rendere il tutto
accessibile a chiunque. L’obiettivo è di evitare di rispondere, in perenne imbarazzo, “sono in fase di transizione, sto lavorando ad una nuova
presentazione del marchio e bla bla bla...” a chi mi chiede “hai un sito?”,
“dove altro possiamo vedere il tuo lavoro o conoscerti meglio?”
Mi ripeto frasi del tipo “da domani inizio” (come la dieta
il lunedì), poi arriva “domani” e arrivano anche nuove mail, nuove richieste e
collaborazioni, la necessità di progettare nuovi lavori, l’occasione di
mercatini e esposizioni, la scadenza di concorsi, l’organizzazione di viaggi
non previsti, le selezioni per corsi necessari alla continua formazione.
L’allestimento del laboratorio è un buono stimolo per questo
proposito in stile “ricomincio da tre”.
Questo blog è stato il primo a subire un restyling, seppur
non definitivo, e perciò ogni passo verso una dimensione più ordinata del
nostro lavoro ho deciso di notificarla qui, come in un quaderno di appunti.
Durerà?
Per adesso questo è un inizio.
Per adesso questo è un inizio.
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lunedì 13 gennaio 2014
"Guardatevi da tutte le imprese per le quali occorrono abiti nuovi." (Henry David Thoreau)
Un mese fa ho assistito alla presentazione di un progetto ambizioso
e dal sapore delirante.
Non ero nella mia città.
Il progetto non riguardava nemmeno il mio Paese.
Chi ne parlò, per circa mezz’ora, aveva una cadenza nella
voce che non mi appartiene.
Andai via di lì esterrefatta ma convinta.
Ieri ho assistito alla presentazione di un altro progetto.
Ho respirato di nuovo ambizione e delirio.
Ero nella mia città.
Il progetto riguarda Taranto, che conosco bene, abito, amo e
difendo.
La voce di chi ne ha parlato, per più di due ore, mi ha
rassicurato sulle nostri comuni origini.
Sono andata via esterrefatta. Punto.
Un mese fa, due ricercatori hanno presentato davanti ad una
piccola platea nel corso di un evento espositivo per makers, il loro progetto di costruire case nel Sud del Mondo usando
stampanti 3D.
È il racconto di un sogno. Coloro che ne parlano e ce lo
spiegano però non sembrano essere visionari. È gente che ha sempre lavorato
nell’ambito del “fare”, che si è specializzata, che ha speso tempo, soldi,
propri e di chi ci ha creduto, ed energie nella ricerca. Ovviamente con la curiosità
e l’entusiasmo necessari ai sognatori. E che oltre ad aver avuto un’idea ha
messo su un progetto per realizzarla. Questo gruppo di ricercatori ha unito le
conoscenze acquisite sul campo negli anni e studi accademici per sviluppare una
propria stampante 3D a basso costo e dalle caratteristiche uniche, la cui
vendita è finalizzata all’autofinanziamento del progetto più ampio di stampanti
3D in grado di "estrudere case" in argilla. Loro fanno parte del WASPproject. E
della loro impresa ne potete leggere più approfonditamente qui.
Quello che posso dire io, è che mi hanno convinto. Forse
perché non volevano affatto convincere nessuno. Parlavano del loro lavoro,
vissuto come vocazione. Ci hanno mostrato la loro macchina con la luce negli
occhi di chi gli ha dato vita come fosse un figlio. Ci hanno spiegato i passi
che stanno compiendo per arrivare alla realizzazione di moduli in argilla mostrandoci
immagini, numeri, e prove sperimentali. Nessuna voglia di convincerci. Nessuna
parola chiave ripetuta oltre misura. Nessuna presentazione sofisticata. Nessuna
immagine drammatica o di effetto che facesse apparire il loro proposito degno
di santità. Solo un sogno che per diventare realtà richiede energia, fatica,
lavoro, impegno, dedizione, poche parole e molto sudore.
Sono andata via carica ed entusiasta. E mi piace poter scrivere di questo incontro.
Mi dispiace che una realtà del genere sia lontana dal posto in cui vivo.
Ieri ero nella mia città e ho assistito alla presentazione
di una ambiziosa idea che punta a ridare un nuovo volto glorioso a Taranto.
Sarà che una presentazione che dura più di mezz’ora comincia
a indispettirmi e mi suona più come tentativo di ipnosi (ieri è durata più di 2
ore).
Sarà che troppi rendering e pochi conti, più che a
“possibilità” mi fanno pensare a “illusioni”.
Sarà che, se ho un’idea, prima del consenso generale, degli
applausi e delle esaltazioni provenienti da gente che poi se ne torna a casa
per curare il proprio orticello o per capire come può mangiare la verdura del
vicino, mi chiedo chi può aiutarmi a migliorarla e renderla davvero attuabile,
ancora di più se mi mancano alcune competenze e una certa formazione.
Sarà che credo nel miglioramento e mi spaventa lo
sconvolgimento
Sarà che non spenderei energie (e soldi) per costruire
deboli segnali di fumo (anche perché di fumo qui ce n’è già abbastanza), se poi
non sono in grado di muovermi per le esigenze dei miei concittadini costretti
ad attendere in piedi il “consueto” ciclo di chemioterapia, in una mattina
qualunque nella sala d’aspetto dell’ospedale di Taranto.
Sarà che io un piatto di pasta con chi mi ha ascoltato per
due ore lo dividerei.
Sarà che non ho bisogno di inventarmi la storia e costruirmi
monumenti datati III millennio per onorarla, se ci cammino sopra ogni giorno a
mia insaputa. Si potrebbe provare a investire risorse per portare la storia
alla portata di tutti, affinchè, una volta conosciuta, tutti imparino ad amarla
e rispettarla e sappiano farla amare anche a chi passa di qui per voglia e per
caso.
Sarà che un orgoglio “costruito” dal retrogusto americano
non mi si addice. Io, citando indegnamente il signor G., “non mi sento
italiana, ma per fortuna o purtroppo lo sono”.
Sarà che prima di partire con telefonate intercontinentali,
citofonerei al mio vicino per chiedere di cosa ha realmente bisogno.
Sarà che nella mia città avrei voglia di vedere meno scudi e
più risorse per gli operatori culturali affinchè possano mettersi al servizio
della città.
Sarà che nonostante sappia che significa scrivere un
progetto, e perciò riconosca e ammiri l’impegno, la dedizione, l’entusiasmo, la
fatica investiti per canalizzare queste energie e idee, non mi sento in obbligo
di appoggiarne il percorso solo perché al momento non ho un progetto alternativo
altrettanto (inutilmente) faraonico. Continuo a credere che la continua
stimolazione alla partecipazione attiva dei cittadini, i progetti nati da
larghe condivisioni e meno pretenziosi, siano ingredienti fondamentali per una
comunità più cosciente, consapevole, responsabile e in grado di prendersi cura
di sé stessa, del territorio che abita e capace di decidere il proprio meglio e
opporsi a chi intende ancora guidarne malamente le sorti.
E chissà che alla fine non si scopra che la visionaria sia
io.
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