giovedì 23 gennaio 2014

sperimentàle #1 - gli sCOPPIAti


“La nostra meta non è di trasformarci l'un l'altro, ma di conoscerci l'un l'altro e d'imparar a vedere e a rispettare nell'altro ciò che egli è: il nostro opposto e il nostro completamento" Hermann Hesse - Narciso e Boccadoro

Questa è la citazione con cui ho sempre accompagnato la presentazione della mia prima vera linea di creazioni: “gli Scoppiati”

Il mio lavoro e la mia vita sono strettamente legati.

È un legame che vivo con incoscienza. Le mie ispirazioni difficilmente sono connesse al lavoro di qualcun altro (magari più talentuoso), alle nuove tendenze nel campo della moda e degli accessori o al colore dell’anno scelto da Pantone (che in genere scopro sempre troppo tardi), e probabilmente (o sicuramente) più che motivo di vanto, questo è un limite, visto il campo all’interno del quale mi ritrovo a lavorare. Le mie ispirazioni vengono da sensazioni che mi travolgono come ondate e a cui cerco di dare forma per evitare di sentirmi sopraffatta dalla costante necessità di espressione che mi caratterizza.

É un modo per “arginare” il sovraffollamento di sensazioni che avverto qualche volta.

La collezione “gli sCOPPIAti” è nata per caso. È nata quando nemmeno sapevo cosa significasse creare una linea di gioielli.

Ed è la somma di tante parti di me.

Un corso da orafa, troppo breve e troppo affollato, mi ha permesso di scoprire il traforo su metallo.
Non mi sono mai sentita esattamente a mio agio con una matita in mano. Ma un seghetto che frattura un materiale e delinea una forma è diventato il mio strumento espressivo.

Ho in mano fili in rame provenienti da scarti di officine, dall’età di 7 anni, quando un’amica mi insegnò  come modellare un gancio per orecchini. Crescendo ho compreso il valore aggiunto assunto da una creazione proveniente da materiali dalle caratteristiche sostenibili, naturali e riciclabili o provenienti da scarti di lavorazione. L’alluminio e il rame sono diventati senza perplessità i miei metalli preziosi.

La mia educazione all’immagine è stata segnata dall’avere sempre avuto una macchina fotografica in mano dall’età di 10 anni e da un padre appassionato di fotografia e arte. E così l’immagine, il simbolo, l’immediatezza di un segno, l’ho sempre vissuto come un potente mezzo di comunicazione spesso più di ogni parola ben ricercata.

“Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato", leggere l’ennesimo libro di Erri De Luca ha fatto il resto.

La doppia natura che mi perseguita e mi definisce, l’ho riportata nel mio lavoro.
Formazione: scientifica quella accademica, artistica/artigiana quella lavorativa.
Origine: nasco, cresco e vivo nella città dei due mari, dei due ponti, delle due vocazioni, dei due borghi.
Capelli: quasi completamente lisci, fatta eccezione per una ciocca crespa nella parte sinistra del capo.
Natura: puntigliosa e disordinata, orgogliosamente buffa e in crisi con il mio aspetto, insofferente nei confronti della gente ma temo la solitudine, mi piace indossare i tacchi senza truccarmi il viso, ordinata nel mio caos, odio il suono della mia voce ma rileggo mille volte quello che scrivo.

Due mani, due occhi, due gambe, due genitori.
Due.

Dualismo come superfici piene che si alternano al vuoto che non è assenza ma, al contrario, delinea il contorno di qualcosa.

Gli scoppiati nascono da questo.

E dopo il primo paio, un punto interrogativo e uno esclamativo creati circa 4 anni fa e assolutamente profetici su quello che sarebbe accaduto, mi sono lasciata andare. 

La comunicazione affidata al simbolismo è stata la scintilla che ha innescato questa linea.

L’effetto è stato l’evocazione di caratteristiche della natura umana, di pensieri, di atmosfere, di immagini e contesti. Ovviamente senza la pretesa di lanciare messaggi definiti. L’unica spinta è stata farsi ispirare con leggerezza dagli stimoli che il mondo, reale e virtuale, manda di continuo, con i suoi costumi in evoluzione, con la natura umana contraddittoria e versatile, con le abitudini in cambiamento, con i ricordi e i sentimenti che animano i passi quotidiani.
E a quei passaggi VEDO → PERCEPISCO → CREO si sono aggiunti INDOSSO → COMUNICO.
Sono nati più di quaranta paia di orecchini diversi e credo di non essere alla fine. Il mio lavoro si è dimensionato attraverso questa collezione e io sono cresciuta con lei.

È migliorata la mia capacità di traforare sul metallo, tanto da permettermi di arrivare ad aumentare lo spessore dell’alluminio usato, rendendo i pezzi più robusti; è aumentata la complessità dei miei disegni.
Traforare disegni molto complessi su piastre di diametri ristretti di un metallo così morbido, ad un certo punto, è diventata quasi una “sfida”.“Forzo” il metallo e la tecnica il più possibile per poter creare manufatti dai disegni complessi ma che rimangano resistenti alle sollecitazioni che in genere subiscono degli accessori di uso comune.
Da questa azione un po’ estremista sul metallo e dalla voglia di evocare pensieri e sensazioni attraverso immagini e segni, nascono di continuo molte idee spesso trasformate in altre nuove collezioni.

Come “Appuntamenti” che è una linea di spille e ciondoli in rame, alluminio e ottone traforati. Alcuni disegni qui si fanno più complessi e articolati, quasi con l’ambizione di raccontare piccole storie all’interno di piastre di pochi centimetri di diametro.

Oppure la nuova linea di anelli a fascia in alluminio, creata da poche settimane e che ripropone quella idea di comunicazione affidata all’immediatezza di una immagine o di un simbolo.

O ancora la collezione uomo che è in fase di progettazione proprio in questi giorni.

Per non dimenticare i tanti lavori originati da un istante di ispirazione e difficilmente “catalogabili” all’interno degli schemi rigidi richiesti da una collezione, che spesso ricerca punti di contatto tra i vari manufatti.
Poiché, per me, tutto diventa ispirazione, un suono, una parola, un sogno, una passione l’associazione di due persone, una fotografia, un’immagine, una battuta ironica, il sarcasmo, una risata, quando poi mi ritrovo a progettare qualcosa, cerco solo il modo per richiamare quella sensazione, senza chiedermi se poi quel lavoro è “fratello di sangue” di qualcuno già creato. 


Mi rendo conto che parlare del mio lavoro comporta il racconto della mia storia o di una parte di essa, e questo spesso non risulta particolarmente interessante. Quando mi imbatto un post del genere (di qualcun altro), mi annoio da morire.

Ma, al di là dello scarso interesse che può suscitare, non posso farne a meno.

Ieri qualcuno mi diceva “conoscere e accettare i propri limiti non serve a fermarci ma ci definisce”.

In questo momento della mia vita e del mio lavoro è di questo che ho bisogno.

Percepire e accettare i miei limiti e definire il mio contorno.

Per portare avanti la vita e il lavoro che mi è capitato di scegliere.

martedì 21 gennaio 2014

La vita mette ordine



Il sogno di un laboratorio messo su in funzione delle reali esigenze di lavoro, allestito su misura nostra e che mostrasse la nostra faccia e il nostro cuore, io e Francesco l’abbiamo sempre avuto da quando le nostre passioni si sono trasformate, a nostra insaputa, tra le nostre mani, in un lavoro. 
Uno di quelli che ti impegnano tutto il giorno, e, molto spesso, anche la notte; che ti costringono a imparare molte cose che non sai, che non pensavi avresti mai imparato e che non centrano niente con quello che hai studiato; che non ti permettono di fare troppi programmi e ti impediscono di avere un finanziamento o di accendere un mutuo; che sì, ti fanno viaggiare, ma sempre come se avessi appena finito la maturità (non sai dove dormirai e con pochi soldi per gli imprevisti); che ti annullano il pensiero di fare la manicure e ti costringono ad indossare il camice anche d’estate.
É quel genere di lavoro che, spesso, ti regala gli sguardi perplessi  di chi ne ha scelto uno più “ordinato” e rassicurante, ed è convinto che la tua scelta possa fare rima con incoscienza, comodità e immaturità (ad essere buoni) ma, ovviamente, mai con fatica o serietà.
Ma è anche uno di quei lavori che a volte ti fa leggere, a chiusura di una mail, frasi del tipo “grazie mille perché sei un’artista”  (ho le prove!) o ti permette di ascoltare complimenti come “sembra di indossare una scultura!” (ho i testimoni!); che ti fa partire per Madrid per visitare una mostra per cui si è stati selezionati senza aver mai mandato la candidatura e che ti fa acquistare, per caso, un libro all’aeroporto di Bologna perché sopra c’è la foto di una tua creazione; che a volte non ti fa sentire la fatica anche se sono le 3 di notte e sei ancora in laboratorio con gli attrezzi in mano; che ti fa provare quella magica sensazione di pensare qualcosa e poi vederla materializzata tra le tue mani dopo qualche giorno.

Ormai, con sacrifici e speranza, la vita e l’età ci hanno obbligati a scegliere, e perciò, quel laboratorio solo sognato, lo abbiamo trovato e da due mesi abbiamo anche le chiavi.

Siamo ancora in fase di allestimento, e ci vorrà ancora un mesetto prima che abbia il nostro aspetto, ma, nel frattempo, tra una parete di cartongesso e "una mano di bianco", insieme allo spazio stiamo provando a riorganizzare anche tutti gli altri aspetti del nostro lavoro.

È qualcosa che mi sono ripromessa da una paio di anni. Chi mi conosce lo sa. Ma non ci sono mai riuscita come avrei voluto.

Ogni volta programmo di prendere in mano per almeno un mese solo il computer e la macchina fotografica e dedicarmi al miglioramento delle mie finestre virtuali sul mondo e della promozione  e organizzazione del mio lavoro che (mio malgrado) non è fatto solo di disegni, seghetti da traforo e metallo.

Mi armo di buoni propositi come ristudiare il sito internet, avviare un e-commerce, mettere a posto il blog e dargli la vita che vorrei, fotografare per bene i miei lavori, dare un aspetto più graficamente gradevole alla presentazione delle varie collezioni, mettere giù descrizioni e ispirazioni che alimentano il mio lavoro, sperando di rendere il tutto accessibile a chiunque. L’obiettivo è di evitare di rispondere, in perenne imbarazzo, “sono in fase di transizione, sto lavorando ad una nuova presentazione del marchio e bla bla bla...” a chi mi chiede “hai un sito?”, “dove altro possiamo vedere il tuo lavoro o conoscerti meglio?”

Mi ripeto frasi del tipo “da domani inizio” (come la dieta il lunedì), poi arriva “domani” e arrivano anche nuove mail, nuove richieste e collaborazioni, la necessità di progettare nuovi lavori, l’occasione di mercatini e esposizioni, la scadenza di concorsi, l’organizzazione di viaggi non previsti, le selezioni per corsi necessari alla continua formazione.

L’allestimento del laboratorio è un buono stimolo per questo proposito in stile “ricomincio da tre”.

Questo blog è stato il primo a subire un restyling, seppur non definitivo, e perciò ogni passo verso una dimensione più ordinata del nostro lavoro ho deciso di notificarla qui, come in un quaderno di appunti.

Durerà?
Per adesso questo è un inizio.

lunedì 13 gennaio 2014

"Guardatevi da tutte le imprese per le quali occorrono abiti nuovi." (Henry David Thoreau)



Un mese fa ho assistito alla presentazione di un progetto ambizioso e dal sapore delirante.
Non ero nella mia città.
Il progetto non riguardava nemmeno il mio Paese.
Chi ne parlò, per circa mezz’ora, aveva una cadenza nella voce che non mi appartiene.
Andai via di lì esterrefatta ma convinta.

Ieri ho assistito alla presentazione di un altro progetto. Ho respirato di nuovo ambizione e delirio.
Ero nella mia città.
Il progetto riguarda Taranto, che conosco bene, abito, amo e difendo.
La voce di chi ne ha parlato, per più di due ore, mi ha rassicurato sulle nostri comuni origini.
Sono andata via esterrefatta. Punto.

Un mese fa, due ricercatori hanno presentato davanti ad una piccola platea nel corso di un evento espositivo per makers, il loro progetto di costruire case nel Sud del Mondo usando stampanti 3D.
È il racconto di un sogno. Coloro che ne parlano e ce lo spiegano però non sembrano essere visionari. È gente che ha sempre lavorato nell’ambito del “fare”, che si è specializzata, che ha speso tempo, soldi, propri e di chi ci ha creduto, ed energie nella ricerca. Ovviamente con la curiosità e l’entusiasmo necessari ai sognatori. E che oltre ad aver avuto un’idea ha messo su un progetto per realizzarla. Questo gruppo di ricercatori ha unito le conoscenze acquisite sul campo negli anni e studi accademici per sviluppare una propria stampante 3D a basso costo e dalle caratteristiche uniche, la cui vendita è finalizzata all’autofinanziamento del progetto più ampio di stampanti 3D in grado di "estrudere case" in argilla. Loro fanno parte del WASPproject. E della loro impresa ne potete leggere più approfonditamente qui.
 
Quello che posso dire io, è che mi hanno convinto. Forse perché non volevano affatto convincere nessuno. Parlavano del loro lavoro, vissuto come vocazione. Ci hanno mostrato la loro macchina con la luce negli occhi di chi gli ha dato vita come fosse un figlio. Ci hanno spiegato i passi che stanno compiendo per arrivare alla realizzazione di moduli in argilla mostrandoci immagini, numeri, e prove sperimentali. Nessuna voglia di convincerci. Nessuna parola chiave ripetuta oltre misura. Nessuna presentazione sofisticata. Nessuna immagine drammatica o di effetto che facesse apparire il loro proposito degno di santità. Solo un sogno che per diventare realtà richiede energia, fatica, lavoro, impegno, dedizione, poche parole e molto sudore.
Sono andata via carica ed entusiasta.  E mi piace poter scrivere di questo incontro. Mi dispiace che una realtà del genere sia lontana dal posto in cui vivo.

Ieri ero nella mia città e ho assistito alla presentazione di una ambiziosa idea che punta a ridare un nuovo volto glorioso a Taranto.
Sarà che una presentazione che dura più di mezz’ora comincia a indispettirmi e mi suona più come tentativo di ipnosi (ieri è durata più di 2 ore).
Sarà che troppi rendering e pochi conti, più che a “possibilità” mi fanno pensare a “illusioni”.
Sarà che, se ho un’idea, prima del consenso generale, degli applausi e delle esaltazioni provenienti da gente che poi se ne torna a casa per curare il proprio orticello o per capire come può mangiare la verdura del vicino, mi chiedo chi può aiutarmi a migliorarla e renderla davvero attuabile, ancora di più se mi mancano alcune competenze e una certa formazione.
Sarà che credo nel miglioramento e mi spaventa lo sconvolgimento
Sarà che non spenderei energie (e soldi) per costruire deboli segnali di fumo (anche perché di fumo qui ce n’è già abbastanza), se poi non sono in grado di muovermi per le esigenze dei miei concittadini costretti ad attendere in piedi il “consueto” ciclo di chemioterapia, in una mattina qualunque nella sala d’aspetto dell’ospedale di Taranto.
Sarà che io un piatto di pasta con chi mi ha ascoltato per due ore lo dividerei.
Sarà che non ho bisogno di inventarmi la storia e costruirmi monumenti datati III millennio per onorarla, se ci cammino sopra ogni giorno a mia insaputa. Si potrebbe provare a investire risorse per portare la storia alla portata di tutti, affinchè, una volta conosciuta, tutti imparino ad amarla e rispettarla e sappiano farla amare anche a chi passa di qui per voglia e per caso.
Sarà che un orgoglio “costruito” dal retrogusto americano non mi si addice. Io, citando indegnamente il signor G., “non mi sento italiana, ma per fortuna o purtroppo lo sono”.
Sarà che prima di partire con telefonate intercontinentali, citofonerei al mio vicino per chiedere di cosa ha realmente bisogno.
Sarà che nella mia città avrei voglia di vedere meno scudi e più risorse per gli operatori culturali affinchè possano mettersi al servizio della città.
Sarà che nonostante sappia che significa scrivere un progetto, e perciò riconosca e ammiri l’impegno, la dedizione, l’entusiasmo, la fatica investiti per canalizzare queste energie e idee, non mi sento in obbligo di appoggiarne il percorso solo perché al momento non ho un progetto alternativo altrettanto (inutilmente) faraonico. Continuo a credere che la continua stimolazione alla partecipazione attiva dei cittadini, i progetti nati da larghe condivisioni e meno pretenziosi, siano ingredienti fondamentali per una comunità più cosciente, consapevole, responsabile e in grado di prendersi cura di sé stessa, del territorio che abita e capace di decidere il proprio meglio e opporsi a chi intende ancora guidarne malamente le sorti.
E chissà che alla fine non si scopra che la visionaria sia io.
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