Un mese fa ho assistito alla presentazione di un progetto ambizioso
e dal sapore delirante.
Non ero nella mia città.
Il progetto non riguardava nemmeno il mio Paese.
Chi ne parlò, per circa mezz’ora, aveva una cadenza nella
voce che non mi appartiene.
Andai via di lì esterrefatta ma convinta.
Ieri ho assistito alla presentazione di un altro progetto.
Ho respirato di nuovo ambizione e delirio.
Ero nella mia città.
Il progetto riguarda Taranto, che conosco bene, abito, amo e
difendo.
La voce di chi ne ha parlato, per più di due ore, mi ha
rassicurato sulle nostri comuni origini.
Sono andata via esterrefatta. Punto.
Un mese fa, due ricercatori hanno presentato davanti ad una
piccola platea nel corso di un evento espositivo per makers, il loro progetto di costruire case nel Sud del Mondo usando
stampanti 3D.
È il racconto di un sogno. Coloro che ne parlano e ce lo
spiegano però non sembrano essere visionari. È gente che ha sempre lavorato
nell’ambito del “fare”, che si è specializzata, che ha speso tempo, soldi,
propri e di chi ci ha creduto, ed energie nella ricerca. Ovviamente con la curiosità
e l’entusiasmo necessari ai sognatori. E che oltre ad aver avuto un’idea ha
messo su un progetto per realizzarla. Questo gruppo di ricercatori ha unito le
conoscenze acquisite sul campo negli anni e studi accademici per sviluppare una
propria stampante 3D a basso costo e dalle caratteristiche uniche, la cui
vendita è finalizzata all’autofinanziamento del progetto più ampio di stampanti
3D in grado di "estrudere case" in argilla. Loro fanno parte del WASPproject. E
della loro impresa ne potete leggere più approfonditamente qui.
Quello che posso dire io, è che mi hanno convinto. Forse
perché non volevano affatto convincere nessuno. Parlavano del loro lavoro,
vissuto come vocazione. Ci hanno mostrato la loro macchina con la luce negli
occhi di chi gli ha dato vita come fosse un figlio. Ci hanno spiegato i passi
che stanno compiendo per arrivare alla realizzazione di moduli in argilla mostrandoci
immagini, numeri, e prove sperimentali. Nessuna voglia di convincerci. Nessuna
parola chiave ripetuta oltre misura. Nessuna presentazione sofisticata. Nessuna
immagine drammatica o di effetto che facesse apparire il loro proposito degno
di santità. Solo un sogno che per diventare realtà richiede energia, fatica,
lavoro, impegno, dedizione, poche parole e molto sudore.
Sono andata via carica ed entusiasta. E mi piace poter scrivere di questo incontro.
Mi dispiace che una realtà del genere sia lontana dal posto in cui vivo.
Ieri ero nella mia città e ho assistito alla presentazione
di una ambiziosa idea che punta a ridare un nuovo volto glorioso a Taranto.
Sarà che una presentazione che dura più di mezz’ora comincia
a indispettirmi e mi suona più come tentativo di ipnosi (ieri è durata più di 2
ore).
Sarà che troppi rendering e pochi conti, più che a
“possibilità” mi fanno pensare a “illusioni”.
Sarà che, se ho un’idea, prima del consenso generale, degli
applausi e delle esaltazioni provenienti da gente che poi se ne torna a casa
per curare il proprio orticello o per capire come può mangiare la verdura del
vicino, mi chiedo chi può aiutarmi a migliorarla e renderla davvero attuabile,
ancora di più se mi mancano alcune competenze e una certa formazione.
Sarà che credo nel miglioramento e mi spaventa lo
sconvolgimento
Sarà che non spenderei energie (e soldi) per costruire
deboli segnali di fumo (anche perché di fumo qui ce n’è già abbastanza), se poi
non sono in grado di muovermi per le esigenze dei miei concittadini costretti
ad attendere in piedi il “consueto” ciclo di chemioterapia, in una mattina
qualunque nella sala d’aspetto dell’ospedale di Taranto.
Sarà che io un piatto di pasta con chi mi ha ascoltato per
due ore lo dividerei.
Sarà che non ho bisogno di inventarmi la storia e costruirmi
monumenti datati III millennio per onorarla, se ci cammino sopra ogni giorno a
mia insaputa. Si potrebbe provare a investire risorse per portare la storia
alla portata di tutti, affinchè, una volta conosciuta, tutti imparino ad amarla
e rispettarla e sappiano farla amare anche a chi passa di qui per voglia e per
caso.
Sarà che un orgoglio “costruito” dal retrogusto americano
non mi si addice. Io, citando indegnamente il signor G., “non mi sento
italiana, ma per fortuna o purtroppo lo sono”.
Sarà che prima di partire con telefonate intercontinentali,
citofonerei al mio vicino per chiedere di cosa ha realmente bisogno.
Sarà che nella mia città avrei voglia di vedere meno scudi e
più risorse per gli operatori culturali affinchè possano mettersi al servizio
della città.
Sarà che nonostante sappia che significa scrivere un
progetto, e perciò riconosca e ammiri l’impegno, la dedizione, l’entusiasmo, la
fatica investiti per canalizzare queste energie e idee, non mi sento in obbligo
di appoggiarne il percorso solo perché al momento non ho un progetto alternativo
altrettanto (inutilmente) faraonico. Continuo a credere che la continua
stimolazione alla partecipazione attiva dei cittadini, i progetti nati da
larghe condivisioni e meno pretenziosi, siano ingredienti fondamentali per una
comunità più cosciente, consapevole, responsabile e in grado di prendersi cura
di sé stessa, del territorio che abita e capace di decidere il proprio meglio e
opporsi a chi intende ancora guidarne malamente le sorti.
E chissà che alla fine non si scopra che la visionaria sia
io.
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